Resiliènza s. f. [der. di resiliente]. – 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale. 3.In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà. [cit. Enc. Treccani].
Ogni giorno sempre di più, questo termine, ci invade, prevale e convince. Ma siamo sicuri che nella gestione delle cose e dell’ambiente questo sia il termine adatto? Diciamo prima di tutto che se la prendiamo sotto il profilo di affrontare le situazioni in maniera elastica e adattarsi al cambiamento inteso come abitudini, allora possiamo confermare la vera utilità del termine. Ma se, come sta succedendo nel nostro amato Abruzzo post terremoto, nel Veneto, a Roma e in America in generale, lo utilizziamo sempre più come un unico pensiero per risolvere le questioni ambientali e disastri, allora possiamo dire tranquillamente che lo stesso termine non serve assolutamente a nulla!
Resilienza in tale contesto è già un concetto vecchio, antico e inadeguato. Infatti sembra quasi essere utilizzato sempre non come elastico ma come adeguamento a situazioni già accadute. In tal senso dobbiamo invertire l’approccio al problema. Non ha senso adeguarsi o vivere il cambiamento quando parliamo di aumento della temperatura nell’aria o quando parliamo di scioglimento dei ghiacciai. Bisogna piuttosto agire. Fare e creare soluzioni che vanno anche, se serve, a sovvertire situazioni induriste da sistemi e politiche scellerate. Ovvero generare un cambiamento non adattasi a lui.
Mentre leggevo l’etimologia del termine resilienza, guardavo Lettere da Berlino, film del 2016 scritto e diretto da Vincent Pérez, basato sul romanzo Ognuno muore solo di Hans Fallada e ho compreso sempre più che tale termine assomiglia in maniera indecente ad una strana manovra di farci soccombere al destino. Destino del disastro.
Facciamo un passo indietro: come ho detto più volte e nello specifico nell’ultimo articolo per La Voce di New York, secondo l’ultimo rapporto di Forrester Research sulle tecnologie emergenti dei prossimi cinque anni, vivremo un futuro legato a temi come ambiente, energia e sovrappopolazione. Vivremo insieme in un mondo iperconnesso in cui a dialogare con la rete, oltre agli utenti, saranno sempre più oggetti e dispositivi. Questa rivoluzione tutti la chiamano internet of things, ovvero internet delle cose. Io la chiamerei più cose di internet. Persone e cose. Su questi termini e modi di vita dobbiamo, quindi, confrontarci e alzare le aspettative di vita e non diminuirle.
Abbiamo già delle strade. Per esempio, da anni viviamo qualcosa di più di una semplice tendenza: ormai condividiamo le esperienze quotidiane con le app, sistemi aperti a gestioni di sorveglianza, telecamere che ci guardano nei bancomat, supermercati, negozi, le tv sono codificate da parabole, contenuti interattivi, semafori intelligenti, motori di ricerca che studiano le nostre abitudini per offrirci sempre più servizi ad hoc, social che raccontano in real time cosa facciamo e cosa faremo. Già dal tempo del fumo degli indiani esisteva un certo rapporto tra uomo e ambiente circostante e da lì possiamo già far derivare la maggior parte della questione che ci interessa.
Un rimando diretto, questo contemporaneo, alla teoria delle reti, detta anche teoria dei grafi. Nel 1959, partendo dalla banale frase “il mondo è piccolo”, dovuto alla relazione casuale tra persone, i matematici ungheresi Paul Erdős e Alfréd Rényi ampliarono questa teoria e nel 1998 i matematici Duncan Watts e Steve Strogatz enunciarono la nozione di “rete del piccolo mondo” (small-world network). Per suffragare tale tesi anche in ambito sociale, nel 1967 Stanley Milgram, psicologo americano, inviò a circa 160 persone, che abitavano tra il Kansas e il Nebraska, un plico contenente il nome, l’indirizzo, la foto e la professione di due persone di Boston e una lista di istruzioni ben precise: se conoscevano di persona uno dei due destinatari, erano invitati a spedirgli il plico direttamente, altrimenti dovevano inoltrarlo al parente, amico o al più prossimo. Nonostante la distanza, una buona percentuale di lettere raggiunse il destinatario, mediamente i passaggi per arrivare al destinatario erano 6. Da qui la teoria dei Sei Gradi di Separazione, titolo anche dell’omonimo e celebre film, e la nascita dei social. Da questi ultimi, il mondo è sempre più interamente proiettato verso una profonda trasformazione: si iniziano ad abbandonare sistemi isolati per sviluppare sistemi che comunicano tra di loro. Sistemi che non possono essere sottomessi a decisioni arbitrarie e che ci permettono di partecipare, e non solo di adeguarci. Soprattutto se parliamo di ambiente e energia non possiamo non sapere che un nostro piccolo intervento fa da stimolo a tante altre azioni e espandersi fino a divenire una pratica sociale vera e propria. Non si tratta più di rispondere ad uno stimolo ma di prevenire un determinato atteggiamento. Trovare materiali oltre la plastica, riciclare, efficientare e tanto altro. Ma fare!
In questa direzione abbiamo tanto da imparare dai dati. Essi si raccolgono e si scambiano in tempo reale, dialogano tra loro, comunicano con il mondo esterno e ci forniscono informazioni, alle quali prima non avevamo accesso. Tutti questi dispositivi raccolgono i cosiddetti big data e diventano “intelligenti” e il neologismo IoT indica proprio l’estensione di Internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti. IoT però e quindi superabile da un acronimo che propongo come CdR (Cose della Rete) che invece si può vedere come interconnessione tra dispositivi e vita, il cui scambio migliora la vita, ma solo se tale scambio avviene in una situazione di sicurezza e atteggiamento propositivo.
Sicurezza che in tal senso assume un significato più ampio nel momento in cui si avverte il bisogno che debba porsi come passaggio dal termine resilienza a quello di “intelligence”. Intellligence sociale, umana. Ovvero spostare l’attenzione dalla sola rete alle cose e alle persone. Una dinamica diretta all’intelligence come ricerca di segnalazioni per il benessere comune. Non più un enorme mole di dati per pochi, ma aiuto reciproco. Una collaborazione tra persone per combattere atti a distruggere la nostra storia millenaria. Una gestione dei rischi che deve passare attraverso la collaborazione di tutti. In un periodo in cui si richiede un accesso interpretativo con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale per unire la sicurezza con il mondo, abbiamo bisogno di chiavi di accesso diverse. Chiavi per diventare intelligence possiamo mutuare dall’arte, dall’ironia e dalla creatività. Uno slancio giornaliero di sforzo per slegarsi dalle formule classiche. Una forza nascosta tra le pieghe della dedizione e amore per la ricerca. Una luce soffusa che ci racconta come le più grandi scoperte scientifiche sono nate da atti creativi, da rotture di equilibri, da formule inaspettate. Dobbiamo imparare ad allontanarci da concetti e da formule già scritte o modelli prestabiliti e “invecchiare” meglio tutti con concetti presi dall’arte e unirli alla scienza sperimentale. Non bisogna adattarsi ma anticipare le azioni di chi vuol eliminare degli equilibri alla collettività. La resilienza è solo elasticità mentale ad adattarsi ad un problema che già esiste. Noi dobbiamo imparare a prevenirlo. Il problema non va solo gestito. È troppo comodo! Possiamo farlo: da una parte abbiamo la natura (pensiamo ai terremoti) totalmente imprevedibile, e dall’altra gli attacchi terroristici su cui studiare e capire come diventare più creativi. Abbiamo bisogno di studiare un modello che funziona, ma anche un modello che non si adatti alle gestioni del dopo, ma che previene pensando l’impensabile. Modelli computazionali, ma anche stare tra le persone e capire le attività e i risvolti sociali.
di Marco Santarelli
Articolo originariamente apparso su "Green Report".