Abbiamo chiesto ad alcuni specialisti e nostri collaboratori dell'Accademia di Belle Arti e Design - Poliarte il loro parere su alcuni temi di attualità per offrirvi un quadro generale e dei consigli utili per affrontare questo periodo di incertezza.
Oggi Gabriella Santini, scrittrice di moltissimi romanzi, racconti e sceneggiature per cartoni animati, progettista di giochi da tavolo, docente di sociologia della comunicazione all’Accademia di Design Poliarte di Ancona, ci parla di un termine usato - e forse abusato - negli ultimi anni.
Titolo convincente? Mmm… Scomponiamolo. Come un puzzle. Varrà la pena.
Il vocabolo “resilienza”, che ha natura tecnica e scientifica, è tra i più usati – o abusati? – di questi tempi; all’incirca dal 2011. È un bene? A mio avviso, no. E perché, poi, d’improvviso, tanta fama? Forse, perché, abusandone l’uso, cerchiamo di fare nostro il vocabolo anche se spesso non ne possediamo la sostanza?
Lo scrittore e semiologo Stefano Bartezzaghi ha indicato la resilienza come “parola-chiave di un’epoca”, alla moda. Per sbriciolare dubbi e gustare il senso intrinseco del ragionare, sbirciamo sul sito dell’Accademia della Crusca e consultiamo il vocabolario Treccani...
Vari sono gli usi e diversi i significati sulla natura e sull’origine del vocabolo. In tecnologia dei tessuti e dei filati, per esempio, resilienza è “la capacità di questi di riacquistare l’aspetto originario dopo una deformazione senza strapparsi”. Indica la possibilità per alcuni oggetti di rimbalzare e per i suoni di riflettersi. In psicologia, denota “la capacità di sostenere gli urti senza spezzarsi, di recuperare l’equilibrio dopo un trauma”.
Abbracciate queste definizioni, dunque, quanti di noi riescono a essere resilienti? Considerando per di più che limpido contrario di resilienza è fragilità?
Facciamo un esame di coscienza nel tempo che intercorre tra l’ultima parola della frase che state leggendo, il punto e l’andare accapo.
Che ne dite? Siamo più fragili o più resilienti?
Direste più fragili, ripensando ai colleghi, ai parenti, agli amici, ai vicini di casa? Ripensando persino a voi stessi, per come siete dentro veramente?
Beh, io direi di sì. Le basi – che dovrebbero essere per definizione solide - della società occidentale sono in bilico da tempo, pur se tentiamo di ignorarne lo stato logoro.
Allora, forse sarebbe più realistico tornare all’umile - e vintage – “resistenza”, ché essa non implica necessariamente mutamento quanto piuttosto capacità di opposizione a qualcosa o a qualcuno che risulti sgradito, pericoloso, prevaricante.
L’altro tassello di questo puzzle contenutistico è “pensiero narrativo”. Cos'è? A cosa serve?
Ebbene, trasfigura ogni realtà e la soggettivizza. E ancora, è aperto, creativo, potenzialmente sconfinato. Implica una rappresentazione temporale e spaziale di qualcosa o qualcuno rendendolo raggiungibile e perciò più concreto. È modello di conoscenza della realtà, planimetria della costruzione del sé, ponte tra culture e luoghi, superamento delle difficoltà connesse alla natura umana. A dar retta a Umberto Eco, nel suo Sei passeggiate nei boschi narrativi, I boschi possibili, “dà senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale. Leggendo romanzi sfuggiamo all'angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire qualcosa di vero sul mondo reale. … Questa è la ragione terapeutica della narrativa e la ragione per cui gli uomini, dagli inizi dell'umanità, raccontano storie.”
Infine è pure – come diceva lo psicologo Jerome Seymour Bruner riferendosi alla cultura e alla narrazione – “cassetta degli attrezzi”: serve a montare spazi inusitati altrimenti impossibili o difficilmente esplorabili.
Ricomposto il puzzle, cosa otteniamo?
I traumatici tempi del COVID-19 saranno seguiti da un’epoca di nuova serenità? Recupereremo l’equilibrio psichico minato grazie agli sforzi del pensiero narrativo?
Già il fatto che, dallo scoppiare della crisi, non ci riesca di parlare d’altro, scrivere d’altro, interrogarci su altro, cosa è se non uno sforzo sovrumano del nostro pensiero narrativo di catturare la paura e trasformarla in coscienza del poter-fare mostrandoci di nuovo alla vita con il sorriso libero da… maschere?