Cosa cambierà in ambito energetico, negli USA e nel mondo, con l’avvento di Trump?
Trump nomina segretario di Stato il CEO di ExxonMobil e alla guida dell’EPA mette un uomo che ha a lungo combattuto l’EPA, ma non è così ingenuo da uscire dagli accordi sul clima. Dietro la questione energetica ci sono la Cina da isolare e la Russia da avvicinare
Tra pochi giorni un uomo che ha dichiarato al mondo che il cambiamento climatico è un “concetto inventato dai cinesi per impedire all'economia americana di essere competitiva”, sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti. Quest’uomo è Donald Trump.
Cosa cambierà seriamente in ambito energetico con l’avvento di Trump? Non dimentichiamoci che energia (gas ed elettricità) e clima sono stati tra i campi di battaglia più aspri della campagna elettorale tra lui e la Clinton. Non dimentichiamoci che chi mette le mani sulla produzione energetica da materia prima riesce, da sempre, a spostare equilibri internazionali. Quali sono e potrebbero essere le implicazioni serie del nuovo operato del presidente Trump?
Se ne sono sentite tante, ma noi qui vorremmo fare un’analisi avendo di fronte una mappa geopolitica già piuttosto chiara.
Trump ha utilizzato la parola energia nella sua campagna elettorale per due motivi. Il primo, ad uso e consumo della politica interna, per cercare di far da subito più mosse, tra cui far deliberare nell'immediato 5.000 miliardi di dollari di riserve per shale oil (petrolio di scisto) e gas naturale e porre fine ai blocchi imposti sulle trivellazioni e conseguentemente aumentare la produzione interna puntando anche sul carbone che sta subendo una vera e propria inversione di tendenza. Infatti si è rilevata una forte diminuzione (80% circa) della produzione stessa di energia derivata dal carbone tanto che nel 2015 le società di servizi hanno perso una capacità di generare energia elettrica pari a circa 18.000 megawatt, mettendo a repentaglio milioni di posti di lavoro (fonte: EIA).
Tutto questo, secondo Trump, per una scellerata politica dell’EPA, agenzia per la protezione dell’ambiente che ha incentivato in maniera sbilanciata, sempre secondo lui, le fonti rinnovabili rispetto a quelle tradizionali. Quindi per questo il neo presidente americano nomina Pruitt proprio alla guida dell’EPA. Pruitt è quell’uomo che ha combattuto contro le normative che l’EPA ha cercato di far seguire in questi anni. Ma qui il tema rimane aperto perché, seguendo anche i principi presenti nell’Executive Order 12898, approvato da Bill Clinton nel 1994, la partita non si gioca più in terreni a idee unilaterali ma si confronta con tematiche di giustizia ambientale supportate dai numeri dell’amministrazione Obama sulle rinnovabili: aumento di 88.000 posti di lavoro nell'eolico (nel 2016) e di 209.000 nel fotovoltaico (nel 2015). Qui si gioca la credibilità di Trump, considerando che anche il Clean Power Plan, la legislazione fatta approvare da Barack Obama nel 2015 e che mira a ridurre del 32% le emissioni inquinanti di diossido di carbonio entro il 2040 ha ancori forti sostenitori interni. Ma intanto il neo presidente nomina segretario di Stato Rex Tillerson, CEO di ExxonMobil.
Il secondo motivo per cui la parola energia è diventata cruciale per Donald Trump è quello legato allo sviluppo degli USA oltre i confini. Proprio per questo motivo lui stesso non vuole realmente spazzare via nessun accordo internazionale come ad esempio quello risultato dalle Conference of the Parties (COP) dell’UNFCCC, come molti pensano. Trump non è così ingenuo da allontanarsi da nazioni (195, alcune molto strategiche per lui) che si riuniscono ogni anno per varare e ratificare novità per mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C. Ciò sarebbe impossibile anche a livello legale. Tesi confermata anche da Ségolène Royal, ministro dell’Ambiente francese e già Presidente della COP21. Trump, dice la stessa Royal, “contrariamente a quello che sostiene, non potrà abbandonare l’accordo per tre anni e, successivamente, servirà un altro anno di preavviso. Infatti, per tutti i Paesi è molto complicato uscire dall’accordo dopo averlo ratificato”.
Oltretutto l’intento di Trump a nostro avviso non è tanto di sparare a zero contro il problema in sé, ma ricordare ai cittadini americani che la vera questione energetica e lavorativa per gli USA è rappresentata dalla Cina. Quest’ultima, secondo Trump, sta facendo una “nuova guerra fredda” screditando gli USA stessi e mettendoli sotto scacco agli occhi sia dell’UE che della Russia sotto gli aspetti energetici e climatici. Oltre a ciò, già nella gestione Obama, il paese del Sol Levante ha cercato di portare la produzione di alcuni brand (legati all'energia, ma anche alla moda o all'industria automobilistica) nella propria patria, creando notevoli danni al mercato interno. Ma la mossa abile risiede in questo: Trump non vorrebbe vedere fuori la Cina definitivamente, ma vorrebbe indebolirla sia internamente che agli occhi della Russia, con la quale, la stessa Cina — qui il prossimo nocciolo — ha siglato l’accordo per la costruzione del gasdotto Power of Siberia, che dovrà collegare i due paesi in futuro. Tutto sembra tornare. Trump vorrebbe entrare nell'affare. La possibilità di mettere le mani sulla questione energetica sembra sempre più rispettare una volontà di cambiare le sorti geopolitiche internazionali. Un link, un mezzo ben architettato che porta ad altro. Quale altro?
Un esempio: quando Trump promette di sopprimere l’EPA (cosa che poi non ha fatto, come abbiamo visto sopra), di eliminare le restrizioni alla produzione di energie fossili e di rilanciare il controverso progetto del mega oleodotto del Keystone XL, bocciato da Obama nel 2015, altro non fa che provocare un certo ceto sociale nel proprio orgoglio nazionale, con il fine di portare tutti verso l’idea che la Cina vada estromessa dalla World Trade Organization. Questo organo oggi è composto da 157 membri che contano per più del 97% del commercio mondiale. La Cina è membro dal 2001 e ha fatto una scalata insostenibile per gli altri paesi per una produzione troppo a basso costo. Per di più, il WTO ha portato a un “effetto dumping”, ovvero una concorrenza sleale prodotta da pianificatori abili che fanno operare in regimi di schiavitù, senza regole sindacali, fiscali ed ambientali, danneggiando chi queste regole le ha e deve applicarle.
Cosa apre questa riflessione o strategia? Intanto un avvicinamento a passi da gigante verso la Russia con cui Trump vuole collaborare sempre più. Non a caso in un tweet dello scorso 7 gennaio il prossimo presidente dice: “Solo gli stupidi o i pazzi possono pensare che avere migliori relazioni con la Russia sia una cosa cattiva”. Perché? L’asse sembra chiaro ora.
Nel contempo a Trump non è sfuggito un fatto rilevante: il 10 ottobre, quasi in sordina e con uno scacco matto all’UE, la Russia è tornata alla ribalta della geopolitica energetica, stipulando un contratto bilaterale con la Turchia (paese strategico tra Asia e Europa) e imponendo così una riflessione generale sullo scacchiere geopolitico energetico internazionale. “L’accordo tra Russia e Turchia prevede costruzione di due fili del gasdotto Turkish Stream sul fondo del Mare Nero. La capacità di ogni filo è oltre 15 miliardi di metri cubi di gas”: sono le parole di Alexey Miller, CEO di Gazprom.
In più, a favore di Putin ci sono anche gli interessi di Francia e Italia, sempre più pronte a esternalizzare verso la Russia i loro prodotti. Anche qui gli USA entrerebbero senza problemi avendo accordi già con la Russia. A prima vista i più ostici sembrano la Germania e i paesi che si sentono abbandonati da Mosca come l’Ucraina, la Polonia e i paesi scandinavi con le repubbliche baltiche, mentre Grecia, Ungheria e Austria sono sempre più distanti dalla Merkel e vicini a Putin. Il nesso non casuale tra Russia ed Europa consiste nel Nord stream, un gasdotto che manda circa 55 miliardi di metri cubi l’anno di gas russo in Germania e che la Germania ridistribuisce in tutta Europa. In Germania la domanda di gas russo è aumentata di circa un terzo nella prima metà di settembre, precisamente del 27,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015. Gazprom ha reso noto di aver presentato la domanda di concessione e autorizzazione al governo svedese per la costruzione del tubo e di un Nord stream II che collegherà meglio la Russia alla Germania, passando dal mar Baltico con l’appoggio di molti paesi europei. In tale direzione, visto che la domanda cresce, la Russia, che ha già oltre il 52% del suo fatturato interno lordo che proviene dall'energia, spera che questo legame si solidifichi sempre più e che il gasdotto raddoppiato sia attivo entro il 2018.
Marco Santarelli
Articolo originariamente apparso su "La Voce di New York".